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Un ricercatore di Agraria nell’équipe che ha decodificato il genoma del melo

Due anni di ricerche i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Genetics con un articolo firmato da 85 ricercatori. Tra questi c’è il bolognese Silvio Salvi, da poco rientrato all’Alma Mater.
Un ricercatore di Agraria nell'équipe che ha decodificato il genoma del melo

La Golden Delicious, seconda mela più diffusa al mondo, non ha più segreti per i ricercatori del Centro di ricerca della Fondazione Edmund Mach-Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Per due anni il gruppo di ricerca coordinato da Riccardo Velasco di cui ha fatto parte anche Silvio Salvi, ricercatore confermato alla Facoltà di Agraria a Bologna, ha compiuto studi per decodificarne il genoma.


" Come è successo per l’uomo – ci racconta Salvi– il progresso delle biotecnologie ha permesso di studiare anche il genoma delle piante". Si è così scoperto che il melo possiede 57mila geni, "il numero più elevato tra le piante di cui finora si è studiato il genoma". Tra questi geni in particolare se ne sono isolati 992, responsabili della resistenza alle malattie. Proprio questo è stato lo scopo di questa ricerca di base e il suo fine applicativo. "Lo studio di questi geni ci fa comprendere come la pianta di melo si difenda dalle malattie e faciliterà in futuro lo sviluppo di nuove cultivar maggiormente resistenti ai patogeni ed ai parassiti. Con l’obiettivo finale di ridurre l’utilizzo dei trattamenti chimici (circa una ventina per stagione, nella pratica convenzionale) in frutticoltura". Altra importante scoperta è stata che il genoma del melo ha subito una duplicazione, databile a 50 milioni di anni fa, che ha portato i suoi cromosomi dai 9 dell’antico progenitore agli attuali 17.


Ma qual è l’origine del melo coltivato?  "Nell’ambito dello studio, si sono messe a confronto sequenze di DNA del melo coltivato (botanicamente: Malus domestica) con le specie selvatiche diffuse in Europa e in varie parti del mondo e si è notata una singolare similarità tra il melo coltivato ed il Malus sieversii, specie selvatica diffusa tra i boschi del Kazakistan" ci spiega Salvi. E aggiunge "una importante  conferma scientifica a quanto era già noto in letteratura, se è vero che il grande botanico Vavilov già negli anni ‘30 osservava che la capitale del Kazakistan, Alma-ata (oggi Almaty), è circondata da meli selvatici che crescono rigogliosi dando origine a vere e proprie foreste, e che il suo nome significa proprio padre delle mele".


E la genetica lo conferma: il progenitore del melo coltivato è quello selvatico del Kazakistan.  Quali le ricadute? "Le varie forme del Malus sieversii sono i genitori ideali per nuovi incroci perché combinano buoni standard di qualità del frutto con tolleranze a stress ambientali ed a malattie. In pratica, si potranno ottenere in tempi rapidi nuove varietà di melo, accelerando i tempi del miglioramento genetico convenzionale e ottenendo piante che si autodifendano dalle malattie e dagli insetti, riducendo così l’uso di pesticidi". Frutti più salubri e gustosi ottenuti incrociando le migliori tra le varietà attuali con quelle geneticamente non predisposte alle malattie e quindi più sane. Proprietà nutrizionali, impatto ambientale esplorazione della biodiversità, studi filogenetici ed evolutivi.


La ricerca, che troverà applicazione immediata in Trentino, territorio tra i più vocati alla frutticoltura di qualità (450 mila tonnellate nel 2009), ha ottenuto un giusto riconoscimento con la pubblicazione sulla rivista Nature Genetics, mensile scientifico con elevato impact factor (livello medio di citazione di ogni articolo pubblicato) del gruppo Nature, che gli ha dedicato la copertina qualche mese fa.